Klamotten è un diario che racconta una vita vissuta a vestire secondhand e vintage.
Dapprima per necessità, poi per scelta consapevole.
Buona lettura!
All’inizio fu un paio di braghette di flanella, color rosa sbiadito, con disegnati degli asinelli grigi. Sbalorditivo è il fatto che li avessi ereditati da mio cugino, maschio, un anno più di me. Io avrò avuto 4 o 5 anni, mi ricordo che in quel periodo scorrazzavo in cortile con una macchinina a pedali; era rossa, pure ereditata dal suddetto cugino ricco, quando ormai gli era venuta a noia.
Eravamo alla fine degli anni ’60.
Comprare usato credo fosse cosa disdicevole ai tempi (ammesso che esistessero già negozi 2nd hand); passarsi i vestiti tra fratelli, sorelle, cugini e cugine invece era pratica comune, in nome del risparmio.
Per cui io, la più piccola, non facevo che ereditare vestiti qua e là, cosa che non mi spiaceva per principio ma trovavo seccante per la quantità di pizzi e nastrini, gonnelle e vestine che mi toccava indossare mio malgrado, maschiaccia che ero.
Con l’eccezione dei sospirati abiti dismessi dall’unico maschio della combriccola, che – a parte lo scivolone degli asinelli di flanella – vestiva sportivo, e mi gratificava con magliette a costine e giubbetti impermeabili, pantaloni da sci (me ne ricordo un paio azzurrini) che usavo per giocare nei campi dietro casa, visto che a noi sulle montagne innevate non ci portavano proprio…
Oltre ai vestiti ereditati, c’era anche il flagello degli abiti lavorati a maglia che a volte ci donava orgogliosamente (a mia sorella e a me) la zia Gemma. Ricordo che una volta, probabilmente per smaltire tutti gli avanzi di lane diverse, ci rifornì di due abiti di maglia, più un paio identici per le nostre bambole, con tutti i colori possibili, a righe, come un incrocio di arcobaleni impazziti.
E dal momento che il tempo dà un’aura di nostalgia anche ai ricordi più raccapriccianti, non ho resistito dall’acquistare nel mio negozio di riferimento (Di Mano in Mano, ovvio) un abito di maglia a righe colorate che mi rammentava quel vecchio capo.
Chissà se mai lo indosserò …
Intanto diventavo grande (le Medie!) e iniziavo ad adocchiare cosa andava di moda e cosa no, per quell’inevitabile desiderio di omologazione e accettazione proprio dell’età adolescente. Ora, i jeans di marca che andavano per la maggiore al momento (nel bel mezzo degli anni ’70) me li potevo scordare, ma qualche surrogato l’avevo ottenuto e mi ritenevo abbastanza soddisfatta.
Improvvisamente poi erano venuti di moda i maglioncini con lo scollo a V, e qui m’ero messa perfettamente al passo andando a saccheggiare dal cassetto del babbo i suoi vecchi maglioncini anni ’60, sopravvissuti a tarme e repulisti vari.
Dalla mamma invece avevo recuperato delle camicette in puro nylon che facevano scintille, soprattutto perché per qualche strana abiezione ebbero il loro momento di gloria (per poco più di una stagione, per fortuna) indossati sopra un dolcevita, spesso sintetico pure lui, e sotto il succitato maglioncino “a V”, in un gioco di “effetto cipolla” alquanto bizzarro.
Altro amatissimo capo second hand del periodo il classico giubbetto di camoscio con collo e polsini di maglina dismesso dal babbo – beige di colore – perfetto per la mezza stagione, mentre per quella invernale dopo ripetute preghiere e promesse di eterna gratitudine ottenni in eredità un vero Eskimo, con inserto in pelo staccabile. L’ultima, gloriosa donazione del famoso cugino, che giunto all’età di 13 anni iniziava a crescere a dismisura, e non mi gratificò mai più dei suoi scarti.