Solo i bambini sono in grado di rimanere fedeli ai quei sogni che sembrano immensi, quei sogni che gli adulti liquidano con una risata, o peggio, con un sorriso d’accondiscendenza.
Forse gli adulti sono invidiosi proprio di quei sogni da bambini, così scopertamente giganti, e della loro totale devozione a quelli. Naruto è la storia dell’attaccamento a un sogno enorme, e di come solo questa ubbidienza totale sia in grado di trasformare un bambino in adulto. Sotto la maschera di battle shonen, fatta di ninja e folklore, c’è la crescita di un personaggio che non lascia che il mondo possa scalfire la purezza di un sogno.
Naruto è un orfano del Villaggio della Foglia. Suo padre è stato il quarto Hokage, ossia il capo-villaggio, ed è morto combattendo un pericoloso demone che minacciava la sopravvivenza di tutti gli abitanti. Ora quel demone è rinchiuso all’interno del corpo di Naruto: il ragazzo ha sigillato dentro di sé sia il ricordo del padre, sia il motivo della sua assenza. E l’unico modo che ha per fare pace con se stesso e con la sua condizione è una: diventare a sua volta Hokage. Masashi Kishimoto recupera l’eredità di Dragon Ball, ossia una narrazione incentrata sullo sviluppo di un personaggio che si trova costretto ad affrontare una minaccia dietro l’altra, sempre più grande. Questa modalità di narrazione, sotto il meccanismo del power-up costante che sembra risultare ripetitivo, nasconde una motivazione più profonda: ogni volta che Naruto ottiene un nuovo potere è in grado di compiere mosse ancora più eccezionali, ogni volta che sconfigge un nuovo avversario sempre più pericoloso, ecco, Naruto in tutti questi cambiamenti cresce e si avvicina sempre di più a quel sogno così scopertamente gigante che aveva da bambino.