
I vestiti siano molto più che una mera questione di superficie. Fanno certamente parte dell’esteriorità in quanto coprono i corpi e sono l’involucro con cui ci presentiamo al mondo. Ma è proprio per questo che raccontano moltissimo della società, di chi siamo, della nostra storia e delle nostre ambizioni.
La storia della moda è piena di esempi di capi d’abbigliamento rivoluzionari che hanno accompagnato cambiamenti epocali nei ruoli di genere e in generale dell’assetto della società. Vediamone insieme cinque.
1. La minigonna degli anni ‘20
Gli orli delle gonne si sono accorciati drasticamente molto prima degli anni ‘60 con la popolarità della minigonna di Mary Quant.
Negli anni ‘20 del 900 la guerra era appena finita, sempre più donne lavoravano – perché avevano dovuto sostituire i propri mariti impegnati a combattere – e c’era tanta voglia di ripresa ed energia vitale. È in questo clima che si formano le icone fashion degli anni ‘20: le flapper girls, donne emancipate che ballavano nei jazz-club, fumavano e bevevano proprio come gli uomini.
Le flapper sono state le prime nella storia a mostrare le caviglie con gli iconici vestiti morbidi dalla linea dritta, comodi per ballare, in totale rottura con quanto prescritto solo qualche anno prima.



Louise Brooks, icona dello stile flapper e del cinema muto degli anni ‘20 e figurini anni ’20.
2. La camicia non si suda (se sei nobile)
La camicia ha una storia molto interessante che racconta le differenze sociali già nel primo Medioevo. E’ interessante sottolineare come in quel periodo storico la camicia era indossata come fosse la canottiera oggi, ovvero il primo degli strati del vestiario, quello a contatto con la pelle e nascosto alla vista.



Il sarto, Giovan Battista Moroni (1565–1570). Nel dipinto si può apprezzare la camicia come abito da sotto, che spunta sul collo e sui polsi.
I ceti più poveri, tuttavia, non avevano che quella per affrontare la quotidianità: ecco che portare la camicia a vista e come unico indumento identificava immediatamente i ceti inferiori. E’ quasi ironico pensare che oggi la camicia non solo si porta “sopra”, ma si accompagna all’idea di potere e di realizzazione sociale. Da qui il detto “essere nati con la camicia”.

Sfilata di Armani del 1986: la camicia e il completo maschile come espressione del nuovo Power Dressing.
3. Corsetto sì, corsetto no, corsetto si!
Il corsetto ha una storia molto antica ed è uno dei capi di abbigliamento più associato all’oppressione femminile nella storia. Il busto ha infatti letteralmente oppresso, schiacciato il corpo femminile occidentale dal 1500 per i secoli a venire.
Fu solo all’inizio del 1900 che cominciò a scomparire grazie ai vestiti dalla linea Impero, introdotta dallo stilista francese Paul Poiret, che ha definitivamente liberato le donne da quella angusta gabbia. Ma siccome nella moda tutto torna, in anni recenti grandi stilisti come Vivienne Westwood, Jean Paul Gaultier, Dolce & Gabbana lo hanno riproposto sulle passerelle in chiave moderna. Ecco che da simbolo di oppressione il corsetto diventa un modo per rivendicare un certo tipo di sensualità femminile e di seduzione consapevole.


Il corsetto nei costumi: dal film Marie Antoniette (2006) di Sofia Coppola e Via Col Vento (1939) diretto da Victor Fleming.



Il corsetto nella pop culture: indossato da Dita Von Teese (attrice e icona di burlesque), Gwen Stefani e Madonna (icone di musica pop).
4. Lo smoking è un vestito da donna
Nel 1966 Yves Saint Laurent sfida i confini di genere della moda facendo sfilare il primo smoking per donna.
Lo smoking era, fino ad allora, uno dei vestiti maschili da sera per eccellenza. Yves Saint Laurent si ispirò a donne raffinate e anticonformiste di quel tempo, come l’artista femminista Niki De Saint Phalle, che amava vestirsi con abiti maschili, e l’attrice Marlene Dietrich che lo aveva colpito in un suo celebre ritratto in abiti da uomo.
“Una donna in vestiti da uomo deve essere all’apice della femminilità per indossare un costume che non è suo” disse lo stesso Yves segnando un passaggio fondamentale nella storia della moda.


Smoking da sera Yves Saint Laurent anni 60.
5. Il denim da Genova alle passerelle
Il tessuto denim, o jeans, nacque tra Genova e la Francia e, grazie alla sua resistenza, veniva usato per confezionare i pantaloni da lavoro. Il jeans come lo conosciamo oggi nasce solo nel 1873 grazie a Lévi Strauss e all’innovazione dei rivetti, quei “punti metallici” che dovevano rinforzare le parti più cedevoli del pantalone.
Da allora il jeans è diventato il più camaleontico dei capi di abbigliamento. Prima veniva indossato dai lavoratori, poi è diventato simbolo delle controculture e delle lotte femministe negli anni ‘60/’70 e successivamente strumento per esibire una sensualità esplicita (qualcuno ricorda le campagne pubblicitarie di Fiorucci?).

Iconica pubblicità di Fiorucci.
Può anche rappresentare uno status symbol quando è di marca oppure quando presenta trattamenti particolarmente elaborati. Le usure e le scoloriture sono infatti la parte più interessante di questo capo di abbigliamento che invecchia come il vino. Lo sanno bene le aziende che propongono sul mercato jeans già strappati e sbiaditi artificialmente, con un conseguente aumento di prezzo per il cliente finale.


Jeans con rotture create artificialmente e decorate con strass; diversi lavaggi di denim.
Concludiamo con una frase che riassume benissimo il senso del nostro racconto, del saggista e semiologo francese Roland Barthes (1915-1980): “Attraverso la moda la società si mette in mostra e comunica ciò che pensa del mondo”.
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