Volti, nomi e storie dietro le etichette
“Io ti aspetto. Io” e punta il dito sul suo petto. “Ti aspetto, aspetto te, tu” e punta il dito sul petto del compagno.
Lezione di italiano mentre insieme si sposta un mobile nel magazzino.
Francesco, 20 anni, prima esperienza lavorativa, il futuro tutto da costruire.
Ibrahim, 20 anni, prima esperienza lavorativa, il futuro tutto da costruire.
L’impegno sociale della Di Mano in Mano, la collaborazione con i servizi sociali per inserimenti lavorativi, cambia nel tempo.
Gli ultimi anni hanno portato i disagi sociali e psicologici delle prolungate disoccupazioni giovanili, il dramma dei cinquantenni lasciati a casa dal lavoro.
Ultimamente la Di Mano in Mano si è aperta alla collaborazione con chi lavora per l’integrazione dei richiedenti asilo.
Oggi le squadre che escono per gli sgomberi e che lavorano nei magazzini sono molto più “colorate”.
Giovani, spesso giovanissimi, con la fatica di una lingua poco conosciuta e la voglia di farcela.
Lavorano fianco a fianco con gli altri ragazzi: lo sforzo condiviso di portare giù un frigorifero dalle scale fa dimenticare le differenze.
Nella pausa però difficilmente si aggregano al gruppetto vociante che si sfida a calcetto. Stessa età, ma negli occhi leggi storie diverse, che fanno crescere a velocità diverse.
Non raccontano mai del viaggio, di quello che si sono lasciati alle spalle. Difficilmente parlano delle loro paure, del loro essere soli, così giovani, in un paese straniero.
Si siedono vicini, sul muretto del cortile: insieme è più facile.
Quando il periodo di tirocinio finisce, trapela il dispiacere di lasciare una realtà dove hanno sentito di avere un posto. E per loro questo non è poco in questo momento, in Italia.
E’ bello anche ascoltare le parole di preoccupazione per loro da parte dei loro compagni di lavoro italiani.
“Adesso cosa farà Ibrahim?” Si scambiano il numero di cellulare.
Sullo schermo della televisione ogni giorno passano le immagine di barconi stracolmi.
Nei discorsi della gente prevale la paura di fronte a quella che viene presentata e vissuta come un’invasione.
E ad invadere sono sempre dei nemici. Difficilmente ci si chiede perché sta accadendo tutto questo.
Forse quello che manca, che potrebbe essere di aiuto per tutti in questa che non è più un’emergenza, ma un movimento epocale ed inarrestabile, è l’esperienza di un incontro.
Un incontro reale, non mediato da slogans e pregiudizi.
Sperimentare che dietro alle etichette ci sono sempre delle persone, dei volti, dei nomi, delle storie.
Che Francesco e Ibrahim vivono entrambi, allo stesso modo, l’ansia e la speranza di trovare una loro strada, in cui poter essere utili a se stessi e al mondo.
Alla fine, che differenza fa che uno sia nato all’ospedale di Vimercate e l’altro in Nigeria?